SARA LEGHISSA

23 - 28 giugno 2020

Prender-si cura | 2020
La Pelanda
Prender-si cura | 2020
La Pelanda

 

 
Cosa vuol dire per te abitare uno spazio in un periodo di residenza?
 

Avendo praticato per anni il lavoro nello spazio pubblico, lo spazio in cui avviene la ricerca determina e costruisce il lavoro. Se penso alla mia pratica artistica, associo l’idea di abitare uno spazio con quella di osservazione, ricezione, assimilazione e scambio, lasciando che sia il luogo a dare indicazioni per iniziare a costruire la forma e determinare i contenuti del lavoro (considerando la stretta connessione e coincidenza tra forma e contenuto). Direi che si tratta di una co-operazione tra l’idea, che è mossa da un’urgenza, un desiderio, un’intuizione, e lo spazio in cui quest’idea cerca di incarnarsi in una pratica.  Nella mia esperienza, più è alta la disponibilità affinché questa relazione sia aperta e fluida e più si costruisce complessità rispetto alla visione. Ho sempre pensato che fosse possibile adattare l’idea allo spazio. Se considero l’urgenza e la strutturo in un’idea, questa, a sua volta, mi darà tante più informazioni e potrà ridefinirsi nel tempo tante più volte, quanto più io sono disponibile a farla dialogare con quello che c’è, con quello che trovo, senza forzarla, senza cercare di mantenerla sempre identica. Questo non significa essere disposti a snaturare l’idea, o a spostare l’urgenza, significa includere in essa, e nel processo, informazioni che non avevi previsto e che continuano determinare nuovo significato e ad insegnarti cose che da sol_ non avevi immaginato, rispetto all’idea di partenza. Quindi, abitare uno spazio significa lavorare in relazione, lavorare insieme ad esso. Daniel Blanga Gubbay parla di co-autorialità rispetto alla creazione, includendo lo spazio come autore nel processo di creazione: mi trovo molto a mio agio con questo tipo di discorso.

 

Come definisci lo spazio del tuo lavoro e della tua ricerca? Cosa indagherai in questa occasione?
 

Come detto poco fa, definisco lo spazio come una componente del processo di creazione. Tendenzialmente, frequentando lo spazio pubblico come luogo di ricerca e di passione, ci si accorge che spesso lo spazio basta a se stesso, e che è molto difficile aggiungere dettagli o immagini, oltre a quelle già esistenti, già presenti. Quello che si cerca di fare, infatti, è lavorare in sottrazione, capire come sfruttare quello che esiste, in combinazione alla struttura del lavoro. Partendo dall’idea che lo spazio contiene già quello che serve, invece che aggiungere informazioni si cerca di capire come dare luce a quello che c’è, attraverso l’aggiunta di un dispositivo che induce a guardare, o che determina il posizionamento di chi guarda, creando un punto di vista. Dal punto di vista tecnico, anche il dispositivo stesso si può costruire utilizzando o sfruttando quello che è già lì. Tendenzialmente, l’uso di questi dispositivi può generare degli scarti rispetto allo sguardo, spostare l’attenzione, concentrarla su un dettaglio, allargare l’immagine e l’immaginario in chi guarda. Questo è quello che chiamiamo fiction. L’aggiunta di un segno che crei un piccolo spostamento rispetto a quello che vedo, rispetto all’ordinario, uno slittamento temporale che diventa narrazione, costruendo nuovi significati per chi guarda, creando dei corto circuiti tra realtà e immaginazione e mettendo in crisi la separazione e la distinzione tra queste categorie.
In quest’occasione vorrei provare a sviluppare una ricerca a partire dal suono e dalla produzione di suono come pratica, specificatamente legata ad un’immagine. Per questo lavorerò insieme ad una rumorista, che solitamente si occupa di creare i suoni che raccontano immagini per il cinema, in maniera molto funzionale. L’idea è provare a partire da questa funzionalità, da questa pratica, e provare a farla dialogare con lo spazio in cui ci troveremo a lavorare e con le immagini presenti nello spazio pubblico, in tempo reale. Proveremo a iniziare con quello che c’è per vedere se quello che c’è vuole spostarsi altrove.

 

Tre parole per definire cura
 

Ascolto. Posizionamento. Resa.

 

 


  

Sara Leghissa è un’artista, ricercatrice e performer con base a Milano. Si laurea in Storia del Mondo Contemporaneo con una tesi in comunicazione politica e sociale. Co-fonda, con F. De Isabella, il collettivo Strasse. Attualmente artista associato a Triennale Teatro dell’Arte di Milano, Strasse produce progetti site-specific nello spazio pubblico, creando dispositivi per alzare il livello di attenzione su ciò che esiste e utilizza il linguaggio performativo e cinematografico come filtro di osservazione della realtà. Insieme ad Annamaria Ajmone, organizza per la scena italiana Nobodys Business, piattaforma indipendente per lo scambio di pratiche nella performing art, e NESSUNO, luogo in cui generare comunità e resistenze attraverso la pratica della festa, difendendo la diversità e la complessità di segni che questo incontro genera. Durante la sua formazione, ha preso parte alla scuola del Teatro Valdoca, diretta da Cesare Ronconi, e nel 2015 viene selezionata per DanceWEB a ImPulsTanz, Vienna. Come performer, collabora con divers_ artist_e compagnie, tra cui Teatro Valdoca, -Dom, Giorgia Nardin, Muta Imago, Daniela Bershan. Come Sara Leghissa/ Strasse, è stata recentemente in residenza a Sareyett (Ramallah) e La Casa Encendida (Madrid), e ha presentato il lavoro in diversi contesti tra cui Santarcangelo Festival (IT), Bolzano Danza (IT), Short Theatre (IT), VAC Foundation (IT), Far Festival (CH), Oerol Festival (NL), Festival Parallele (FR), Saal Biennal (EE). 

parte di

16 giugno - 15 ottobre 2020
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
13 luglio, ore 12-13