ANNAMARIA AJMONE | TENTATIVI DI TRASFORMAZIONE

4 - 13 agosto 2021

Diario 2021 - 2022
Diario 2021 - 2022

La notte è il mio giorno preferito è l’ultimo lavoro di Annamaria Ajmone. Una ricerca articolata portata avanti con un gruppo di lavoro formato da Stella Succi, ricercatrice, in veste di dramaturg; Natalia Trejbalova, artista visiva, che ha lavorato alle scene; Giulia Pastore, che si è occupata del disegno luci; Jules Goldsmith che ha curato i costumi e Flora Yin-Wong, sound artist, che ha curato la parte sonora del lavoro.

La conversazione che segue si è tenuta a seguito della residenza e si è svolta non solo insieme ad Annamaria ma con alcune delle persone coinvolte, questo ci ha dato modo di entrare in profondità nei vari aspetti del lavoro.

 
 
 

11.8.2021

 

Paola Granato: A che punto è il lavoro? Che cosa avete fatto in questi giorni di residenza?

 

Annamaria Ajmone: Questa è l’ultima residenza del lavoro che debutterà tra due mesi a Torino. È l’ultimo momento di ricerca, in cui solitamente si chiude il lavoro. Quest’anno siamo riuscite a lavorare per più tempo in una sala teatrale, visto che i teatri erano chiusi per la pandemia. Abbiamo sperimentato sulle luci fin da subito, in generale è un aspetto che rimane sempre sul piano teorico e immaginativo e viene relegato alla parte finale del processo. Ci siamo approcciate alla scena e alla scrittura scenica dall’inizio, in parte lo richiede la natura del lavoro. Natalia, con cui desideravo collaborare e impostare un discorso sull’immagine, è stata coinvolta fin da subito, per provare le intuizioni che avevamo avuto e capire quali erano di nostro interesse.

Siamo arrivate qui con le idee chiare rispetto allo spazio scenico e alle intuizioni coreografiche, i task che rendono possibile ciò che accade in scena. 

La prima parte della residenza al Mattatoio è stata dedicata a precisare la partitura sonora. Nei primi giorni, infatti, è stata qui Flora, che di base è a Londra e, solo adesso, è riuscita ad arrivare in Italia. Abbiamo lavorato per lo più a distanza, pensavo sarebbe stato più semplice, ma ho capito che ho bisogno di lavorare più a stretto contatto con la musica. A maggior ragione in questo caso, visto che io e Flora non ci conoscevamo. Lavorare insieme richiede anche la confidenza necessaria 

per scavallare la timidezza e la vergogna che si ha di mostrarsi e di condividere le cose. Abbiamo lavorato fianco a fianco ascoltando e provando, sono, poi, arrivate Giulia e Natalia e, tutte insieme, abbiamo testato la struttura musicale nell’integrazione con gli altri elementi del lavoro.

Naturalmente l’inserimento di un’altra componente trasforma ciò che accade in scena, è stato bello vederlo succedere. È stato il primo momento in cui tutti gli elementi della scena erano presenti, abbiamo quindi messo in atto tutto un processo di relazione con lo spazio.

È stata la prima volta, grazie anche alla collaborazione con Stella sulla ricerca e sulla drammaturgia, che arrivo con un percorso chiaro. Di solito il dialogo con i collaboratori arriva in un secondo momento e la ricerca è più disordinata, questa cosa mi ha molto tranquillizzata e mi ha permesso di andare in altri luoghi e di capire meglio alcune cose. Questo continuo dialogo crea un rimbalzare continuo degli elementi che ha fatto sì che arrivassero in maniera chiara anche alle altre persone con cui stavamo lavorando. 

In questi giorni con noi c’è stato Andrea, che mi ha aiutato, sostituendomi in scena, a capire cosa si vede. Essendo in scena da sola ho bisogno, per non sentirmi disorientata, di vedere da fuori come risponde il materiale. La sua presenza è stata preziosa.

 

Paola Granato: Nelle conversazioni scaturite dalla residenza precedente abbiamo parlato molto della tua pratica, nel vedervi qui, tutte insieme, mi sembra si sia compiuto un desiderio che avevi già messo in atto.

 

Annamaria Ajmone: Sì, ne abbiamo parlato molto. I miei lavori sono lavori anche di altre persone. Ho un’intuizione, e da quell’intuizione immagino gli inviti che vorrei fare. Questa cosa accade con Nobodys, un’esperienza che mi ha aiutato a chiarire che per me l’invito è qualcosa di molto importante. Io invito qualcuno non a lavorare per me, e quindi essere a mio servizio, ma invito la visione di qualcuno su un oggetto. Questo significa anche che la mia intuizione iniziale prende forma e si modifica e diventa il risultato di una moltitudine di pensieri. Non credo che riuscirei a lavorare in altro modo, mi piace mettere in discussione la mia idea iniziale, mi piacciono le altre persone e i loro lavori e mi sento molto fortunata a poter avere la possibilità di lavorare con altri che arrivano mettendo in campo una generosità importante. 

 

Paola Granato: Mi ricordo che, parlando di contenuti, avevi il desiderio di portare avanti qualcosa che era anche dentro No Rama, il tuo lavoro precedente, e che volevi approfondire. È andata così alla fine?

 

Annamaria Ajmone: L’humus è sempre quello, credo che ogni lavoro si porti dentro qualcosa che sarà poi il lavoro successivo, anche se ci sono dei momenti di rottura. Con No Rama ho iniziato un percorso di ricerca che non si è esaurito e, trasformandosi, ha deviato da un’altra parte. Tutto un immaginario che c’era in No Rama ritorna in La notte è il mio giorno preferito; in quel caso era più legato alla speculative fiction e alla fantascienza e si concentrava molto di più su un ambiente ibrido di creature umane ed extraumane. In questo lavoro, invece, ci si sposta in una zona in cui l’oggetto è l’animale e il rapporto tra differenti specie, anche se c’è sempre un elemento non concreto. Il desiderio è quello di portare sulla scena il fatto che non possiamo capire tutto, che c’è qualcosa che non possiamo afferrare e non possiamo dire. Questa è una zona che a me piace molto. 

 

Paola Granato: In questo non poter dire e non poter capire quale incontro c’è stato con le altre specie? 

 

Annamaria Ajmone: Abbiamo cercato di comprendere dei mezzi e tentativi di entrare in contatto. Tutta la struttura drammaturgica è fatta di questi tentativi. È stato fondamentale un testo che abbiamo letto dal titolo Sulla pista animale, di Baptiste Morizot. È un libro che mette in campo una pratica fisica e ci ha parlato in maniera più diretta rispetto ad altri testi, magari più belli e che ci hanno comunque affascinato, ma che non hanno la stessa concretezza. Racconta la pratica del tracciamento animale anche dal punto di vista filosofico, di come entrando nello spazio che l’animale costruisce e seguendone le tracce si entra in una logica altra.

Noi stesse lo abbiamo esperito perché con il Far Festival di Nyon abbiamo immaginato delle residenze che si concentrassero su esperimenti e sullo studio in loco nella foresta, siamo state affiancate da alcuni studiosi che ci hanno illustrato l’ecosistema della foresta e come riconoscere la presenza animale. La percezione del corpo e lo stare nello spazio cambiano, cambiano anche le posizioni del corpo quando si segue un tracciato o, più semplicemente, quando si attiva l’immaginazione sull’eventualità del passaggio di un animale in quella zona.

È stata un’esperienza fondamentale per capire che quando si traccia si è sempre anche tracciati, aspetto che è diventato centrale all’interno del lavoro, dato che tutta la scrittura della coreografia lavora sul continuo rapporto tra mostrarsi e non mostrarsi, seguire ed essere seguiti.

 

Natalia Trejbalova: All’inizio della ricerca Annamaria ci raccontava che di notte guardava le webcam dei parchi naturali e osservava gli animali che ogni tanto apparivano. L’attesa di questa apparizione, che si può verificare o meno, è uno stato interessante. La camera è, per lo più, fissa, e sembra quasi di essere davanti a un palcoscenico. C’è un aspetto di osservazione che in parte è voyeuristico.

 

Paola Granato: Mi sono interrogata sul rapporto visibile/invisibile in questo lavoro. Il tentativo di trasformazione massimo avviene tra il buio e la penombra. Quale rapporto c’è con la dimensione invisibile? E che ruolo gioca il mostrarsi e non mostrarsi in relazione al pubblico?

 

Annamaria Ajmone: La sparizione è una cosa che mi piace, mi piacciono quei lavori in cui il corpo si vede a metà, dove si può attivare l’immaginazione.

Mi viene sempre in mente una cosa che mi disse Giulia quando facevamo Tiny che mi è rimasta nel cuore, perché la sento estremamente profonda. Io mi mettevo delle piume nei capelli ma non le notava nessuno; a volte, verso la fine due o tre piume cadevano e un giorno Giulia mi disse: “È vero che non le vede nessuno ma pensa a chi le vede”. In questa frase sento qualcosa di profondamente legato alla mia ricerca. Mi piace che ci sia un’atmosfera nella quale si vede e non si vede, dove non tutti vedono la stessa cosa. Il lavoro si chiama La notte è il mio giorno preferito, perché parte dall’idea dell’apparire e dello scomparire, di quello che accade quando non vedi benissimo, di cosa si può immaginare, come se fosse una soglia continua.

 

Giulia Pastore: Credo che la parola giusta sia intravedere. Durante i tracciamenti l’animale lo intravedi. È un termine che ha due significati: vedere per un attimo o vedere attraverso. Quando si vede qualcosa attraverso si ricostruisce. Puoi dire di aver visto una volpe anche se, in realtà, si trattava di un gatto. Ma il desiderio era quello di vedere una volpe. La possibilità di rendere tutto visibile permette di stare tra tante cose. È una soglia che fa parte della sfera soggettiva, le piume puoi vederle o non vederle, e questo è il bello: mettere su palco qualcosa che è costruito in maniera oggettiva, ma quando la restituisci a un pubblico entra in campo la soggettività. 

 

Stella Succi: La questione dell’oscurità è centrale in tutto lo spettacolo. Intuire senza vedere direttamente, perché il tracciamento è proprio questo: intuire grazie a delle tracce che fuori c’è qualcosa, e riuscire a intravederlo. Nelle piccole esperienze di tracciamento che abbiamo fatto è impossibile non registrare le emozioni che una foresta di notte provoca. Di notte la foresta si anima, ce lo ha insegnato durante la residenza al Far una responsabile vallese del WWF; ci raccontava che gli animali stanno diventando sempre più notturni, per sfuggire agli uomini che girano nei boschi. Il bosco di notte è un posto vitale e rumoroso dove si continua a intuire la presenza dell’altro senza vederlo mai direttamente. La questione dell’inconoscibilità, unita all’intuizione che opera a un livello epidermico, è una cosa che ho sentito tanto nel lavoro che abbiamo fatto insieme, perché è uno dei punti in cui le nostre ricerche si incontrano.

 

Annamaria Ajmone: La questione della soglia è fondamentale perché noi non parliamo di trasformazione in questo lavoro, ma di tentativi, provare, quindi, a entrare in comunicazione e tentare di guardare da un'altra prospettiva determinate cose. A livello di presenza scenica è la cosa più complessa che sto cercando di affrontare. È importante per la materia fisica questo tentativo, cercare di andare in una zona per poi rinunciare e riprovare. 

 

Stella Succi: La questione dello sguardo del pubblico a cui si accennava prima è importante. Il momento del rosso nello spettacolo è il momento in cui lo sguardo esterno è concretizzato. È il momento più evidente in cui si capisce che si traccia e si viene tracciati e c’è questo gioco di sguardi che coinvolge anche chi è al di là del palco. 

 

Annamaria Ajmone: Parlando dal lato performativo è veramente incredibile quando un oggetto, per esempio la parrucca, si trasforma in qualcosa di altro. Io devo lavorare molto su quell’aspetto, perché si sente, e quindi deve veramente diventare qualcos’altro. 

 

Giulia Pastore: In questo spettacolo si chiedono al pubblico due cose diverse in due momenti diversi. 

Ha a che fare con il lavoro sullo spazio di Natalia e quello che faccio io con le luci.

C’è uno spazio dato che viene attraversato che non è permeabile ai tentativi di trasformazione di Annamaria. Sono due cose che coabitano: lo spazio e Annamaria, con i suoi tentativi di attraversamento e i suoi gesti. Lo spettatore in quel momento è chiamato a guardare tutto il visibile. C’è tanta oscurità, non è uno spazio che si esibisce, che si mostra.

Quando portiamo tutto a buio e dichiariamo tecnicamente che la luce viene da fuori e che è mossa da una persona, stiamo interrogando il pubblico in maniera diversa, c’è un rovesciamento. Lo spazio non è più dato ma è censurato, lo stiamo sottraendo ed è il corpo che va seguito. Si può, però scegliere: se segui il rosso trovi il corpo, ma puoi guardare nel buio.

 

Annamaria Ajmone: Certo. C’è, però, un altro elemento che è molto importante ed è stato anche motivo di scelte compositive: lo spazio viene mosso dal suono. Il suono diventa materia, io cercavo qualcosa che fosse un altro oggetto e che in qualche modo questo spazio potesse essere vivificato e si potesse muovere attraverso questo suono.

 

Giulia Pastore: Pur sottraendolo nel buio, questo spazio non smette assolutamente di esistere, e si sposta. Anche all’inizio lo spazio lo crea la tua voce, non si tratta di canto, è come un’apertura del tuo torace che accoglie.

 

Annamaria Ajmone: Per quanto riguarda la voce ci siamo chieste che cos’era quel suono iniziale: è un richiamo che ha bisogno di risposta? È un segnale? Un pericolo? All’inizio sulla voce ho lavorato con Veza, un’artista che è venuta ad aiutarmi, c’era proprio questa idea di segnare lo spazio con la voce e poi di muoversi dentro questo spazio. 

 

Giulia Pastore: È anche la prima volta negli spettacoli di Annamaria in cui c’è uno spazio effettivo, una collaborazione con un’artista visiva che ha fatto sì che per la prima volta ci sia un segno spaziale preciso sotto cui tutto accade.

 

Natalia Trejbalova: A me è piaciuto il fatto che Annamaria non voleva dirmi troppe cose sulla scena, voleva che trovassi una mia visione di quello che lo spettacolo poteva poi diventare. Sono delle modalità di lavoro totalmente diverse rispetto alle arti visive, e per me è stato molto interessante capire come si lavora e capire come lei voleva lavorare. C’è una coralità nel lavoro, tante strade che continuano a incrociarsi. All’inizio avevo alcune informazioni, ma poi mi sono fatta una mia idea di quello spazio. Per me era importante, rispetto agli elementi che compongono la scena, che essi racchiudessero il regno animale e vegetale allo stesso tempo. Ho immaginato Annamaria come una creatura che attraversa questo spazio, che non è terrestre, ma che ha una componente fantascientifica; questa intuizione si è sposata molto bene con il resto del lavoro. Un altro elemento importante era l’idea di perdersi nell’ambiente, ci sono stati dei tentativi di creare dei pieni e dei vuoti, dei momenti in cui lo spazio stesso ci fa vedere e non vedere il corpo in scena.

 

Paola Granato: Della scena mi interessa l’artificio dichiarato. In uno scritto contenuto nel tuo sito ho letto questa frase interessante sull’imparagonabilità tra piante e animali pur condividendo lo stesso spazio. 

 

Annamaria Ajmone: Nel lavoro di Natalia questa cosa è presente, e quindi nel momento in cui ho iniziato a immaginare questo lavoro che aveva così tanto rapporto con gli animali, la foresta che ho pensato che lei fosse perfetta. 

 

Natalia Trejbalova: È magica la trasformazione che avviene con la luce. L’artificio che c’è attraverso la luce ha – a volte – l’illusione della naturalezza. Nella mia pratica video la creazione del set è esattamente questo, capire cosa vuoi far vedere e come lo vuoi far vedere. A proposito dell’artificio, Annamaria fin dall’inizio ci diceva che lei era un corpo femminile che stava cercando di fare dei tentativi di trasformazione, c’era fin dall’inizio il focus sulla continua consapevolezza della costruzione di uno spettacolo. 

 

Stella Succi: Abbiamo cominciato a lavorare sulla scena prima della residenza e l’esperienza nella foresta ci ha permesso di verificare alcune cose. Degli elementi erano già lì, alcuni li abbiamo tenuti e altri li abbiamo abbandonati. Quello che sicuramente ci ha colpite di questa esperienza è che - e uso una parola che ho usato molto e che ho preso da Marie Sangrà con cui abbiamo studiato l’ecosistema al Far - non esiste un ecosistema selvaggio e naturale. Lei parlava della foresta come ambiente tecno-naturale, perché porta i segni dei suoi abitanti e questo la rende immediatamente artificiale.

 

Annamaria Ajmone: Ci relazioniamo con qualcosa che di base abbiamo costruito, come lo stesso concetto di natura.

 

Giulia Pastore: La retorica della natura come qualcosa di puro è un costrutto, in scena abbiamo la possibilità di renderlo esplicito attraverso una costruzione apparentemente naturale, un assemblaggio di piccole cose di plastica colorate, con una luce che riprende delle frequenze di colori che non hanno nessuna probabilità di esistere in natura. Già in No Rama avevamo fatto un lavoro di ricerca cromatica, su dei colori che sembrano naturali ma che non lo sono, per sottolineare il fatto che la nostra mano è sempre presente.

 

 
La notte è il mio giorno preferito
ha debuttato a ottobre 2022 a Torinodanza Festival, Torino.

parte di

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Gli appunti in forma di diario raccolti qui raccontano il percorso fatto con le artiste e gli artisti del progetto Prender-si cura, un ciclo di residenze artistiche e produttive realizzate a La Pelanda, nel Mattatoio di Roma.
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
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