MUNA MUSSIE | TESSERE L’OBLIO

4 - 10 aprile 2022

Diario 2021 - 2022
Diario 2021 - 2022

Da tempo era presente il desiderio di invitare, all'interno di Prender-si cura, Muna Mussie, artista di base a Bologna, di origine eritrea, il cui lavoro si muove tra i linguaggi dell’arte performativa e dell’arte visiva. Fin dalle prime conversazioni si è concretizzata l’idea curatoriale di presentare il lavoro dell’artista all’interno di re-creatures 2022, programmazione pubblica del Mattatoio. Dopo varie ipotesi la scelta condivisa con l’artista è stata quella di realizzare una versione site-specific di Oblio, un’installazione precedentemente realizzata a Torino, che è diventata, nella presentazione a Roma, Oblio/Pianto del Muro. Parlando con l’artista sono emersi il desiderio e la volontà di approfondire e ampliare la ricerca, Muna Mussie ci ha raccontato così la nascita del progetto: 

 

Oblio è nato da una richiesta di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo invitata, a sua volta, da Biennale Democrazia, che si tiene a Torino da vari anni e che per quell’edizione aveva come tema quello della memoria storica. Stavo già lavorando sul concetto di oblio nell’ambito di un workshop che tenevo a Milano. Avevo letto Che cos’è una nazione? di Ernest Renan, in cui si sottolinea come l’oblio sia una parte fondante della creazione dell’identità di un popolo, di come anche la rimozione sia potente e crei collisione. Volevo, quindi, prendere in mano la questione partendo da questa accezione negativa di oblio e decostruirla. Ho deciso, anche in questo lavoro, di usare la pratica del ricamo e agire fisicamente sulla parola “oblio”. Attivando e disattivando la parola, attraverso il gesto del ricamo, forma e contenuto si fondevano e si rendeva visibile il fatto che l’oblio rappresenta qualcosa che unisce. Questa è stata anche occasione per trasferire un’esperienza che, fino ad allora, avevo realizzato con un piccolo gruppo di persone – in cui ognuno si confrontava con il proprio oblio personale su una porzione di tessuto pari a un foglio A4 – in una dimensione pubblica. Le storie personali incontravano la Storia. La grande struttura, costituita da tubi innocenti e ricoperta da tessuto da cantiere, era posizionata di fronte al Castello del Valentino, la cui sagoma era disegnata sul telo. Un segno simbolico che delineava un ambiente entro il quale le persone coinvolte erano impegnate nell’azione del ricamo. Uno spazio in cui vivere e ricreare la Storia, un cantiere, una nuova abitazione che evoca la costruzione ma, anche, la ristrutturazione di qualcosa. Uno spazio che aveva una temperatura mobile, un lavorio continuo, una natura attiva e velata in cui predominava l’idea del visibile e non visibile; tutto rimandava al concetto di oblio che non è qualcosa di statico ma vibra perennemente, è come un fantasma che si aggira dentro e fuori di noi. 

Desideravo continuare a lavorare sul concetto di oblio e di trovare una modalità di pratica del ricamo che mi permettesse di indagare possibilità diverse. Volevo trovare il modo di portare altrove il lavoro di Torino, che era estremamente connotato. Pensando al Mattatoio, alle sue vicende e alla sua struttura architettonica, mi sembrava opportuno ampliare il concetto di Storia e pensare a un oblio che include tutti. L’idea di Pianto del Muro è molto pertinente rispetto a ciò che in quello spazio i muri hanno visto e ascoltato nel tempo. Ho immaginato uno spazio che possa accogliere umani e non umani e rendere conto, anche, dei lamenti dei muri del Mattatoio. Ho pensato a una struttura che ricalcasse quella di un muro. Uno dei primi riferimenti è stato il Muro del Pianto di Gerusalemme, un luogo conosciuto da tutti e che richiama una storia di cui è nota la violenza. Il muro, poi, evoca l’idea di sacro e, allo stesso tempo, di guerra, viene usato per proteggersi e per attaccare, è una barriera che impedisce il dialogo. Sentiamo da molto tempo parlare di muri, se ne sono costruiti numerosi ma sembra sempre una cosa nuova. Questo fa parte di un meccanismo di rimozione generale e il mio desiderio è quello di sottolineare il reiterarsi di alcune questioni, fermandosi a guardare, vivere assumendosi questo ripresentarsi della Storia. Volevo, inoltre, concedere alle persone che hanno collaborato con me di avere uno spazio condiviso in cui dedicarci insieme a un pianto, a un lamento, a una tristezza di cui a volte forse ci si vergogna, che ci attanaglia tutti e che, in questo caso, possiamo prenderci il lusso di manifestare e condividere. 

 

Da subito Muna Mussie ha deciso di collaborare con Massimo Carozzi – artista visivo, musicista e sound designer – per realizzare una partitura sonora fatta di lamenti che ha accompagnato il lavoro. La presenza dei due artisti  all’interno de La Pelanda ha fatto sì che si mettesse in moto un circolo virtuoso di collaborazioni sia interne che esterne al Mattatoio.  

Molto spesso diciamo che quando La Pelanda è abitata da più presenze contemporaneamente si attiva un’energia palpabile che esiste e realizza cose a partire dalla possibilità di aver disposto nel migliore dei modi possibili le condizioni per farle accadere. Tutto è importante: artiste e artisti che, insieme a noi gruppo di lavoro, si scambiano riflessioni, conversazioni che avvengono in momenti di pausa, incursioni nelle prove. In questo caso è avvenuto un vero e proprio contagio. Negli stessi giorni in cui Muna Mussie era in residenza, si teneva a La Pelanda uno dei laboratori gratuiti del progetto Ricreazione, condotto dal musicista Simone Pappalardo e della cantante Claudia Ciceroni. Da questa copresenza è scaturita una collaborazione, i due docenti insieme ai partecipanti al laboratorio hanno sperimentato e, alla fine, registrato i lamenti che accompagnano Oblio/Pianto del Muro. 

Questa non è l’unica collaborazione  che si è sviluppata; durante la residenza e poi nell’azione performativa, Muna Mussie ha lavorato sul ricamo con persone che fanno parte di  Coloriage, un’associazione che ha sede in alcuni spazi di Campo Boario del Mattatoio, che si occupa di sartoria coinvolgendo soggettività in difficoltà per motivi di migrazione. 

Muna ci ha parlato del lavoro sul suono e di queste collaborazioni: 

 

Le persone che hanno partecipato al workshop di ricamo alla Pelanda si sono prestate a donarci il loro lamento. Con Massimo Carozzi abbiamo raccolto diversi lamenti. Siamo partiti dalla parola “oblio” e abbiamo chiesto a ogni persona di esprimere il proprio significato di oblio per trovare un’altra parola che fosse vicina a questa visione personale. Abbiamo, poi, portato questa parola a un punto di rottura, per farla allontanare dal significato facendola diventare un suono che non avesse più bisogno di essere detto o spiegato ma che si rappresentasse attraverso la sonorità della voce. È stato importante il lavoro che abbiamo fatto con Simone Pappalardo e Claudia Ciceroni. Abbiamo partecipato ad alcune sessioni di lavoro condotte da Claudia Ciceroni per condurre le partecipanti all’interno del lamento che stavamo indagando. Oltre ai lamenti singoli abbiamo registrato anche un lamento corale. Le indicazioni erano quelle di ripetere fino a stressare, a fin di bene, una parola per portare le persone verso una dimensione altra. Il lamento è ripetizione finché non si affievolisce, ed è connesso all’oblio in quanto azione che porta a guardare, più volte a ripensare a una memoria finché, questa, naturalmente, non svanisce. 

 

A distanza di tempo dall’azione performativa Oblio/Pianto del Muro abbiamo chiesto a Muna Mussie in che modo questa tappa ulteriore del progetto ha arricchito la ricerca: 

 

Prender-si cura ha concesso un tempo che fino ad ora non ero riuscita ad avere per la ricerca sull’oblio. Ho avuto l’opportunità di lavorare con un piccolo gruppo di persone alleate con le quali pensare e parlare del progetto e, al tempo stesso, sperimentare delle tecniche e trovare delle soluzioni per un obiettivo comune,  che ognuno ha avuto l’opportunità di esplorare secondo le proprie abilità. È stato interessante mettersi di fronte a una parte di tessuto per  usarla nella maniera che ognuno desiderava. La pratica era quella del ricamo, gli strumenti erano ago e filo, e la parola “oblio” restava come punto di partenza. Ma non era circoscritta e, quindi, durante la residenza c’è chi ha usato altre parole e segni che erano già interpretazione di quello che può essere l’oblio.  

È stato importante avere questo tempo privato in cui conoscere i soggetti che avrebbero partecipato all’azione performativa in anticipo e riflettere sull’oggetto che si sarebbe andato a comporre attraverso la pratica. La chiamata che si fa ha già a che fare con l’oblio, le persone che arrivano, ognuna con il proprio portato di esperienze e ognuna con le proprie storie, sono, per me, delle manifestazioni tanto quanto l’immagine che si crea tutti insieme. Mi piace molto l’intimità che si instaura con le persone che si incontrano, per quanto sono i corpi ad agire l’intimità non ha a che fare con essi né con una prossimità fisica ma si materializza in una comunione d’intenti, nell’andare insieme in una direzione. Questa intimità si trasferisce poi sul tessuto e si fa corpo in un oggetto in cui si scambiano pensieri e idee attraverso la fisicità dei materiali. 

A differenza di Oblio a Torino, che si è occupato di una storia circoscritta coinvolgendo un gruppo di donne specifico, Oblio/Pianto del Muro ha esteso la ricerca straripando ma, in qualche modo, si è aperto a qualcosa di molto più specifico perché ogni partecipante ha portato la sua storia personale che richiamava altrettante storie. C’era la storia del Mattatoio, la storia della città che è formata da numerose etnie, la storia dell’associazione Coloriage, le storie dei partecipanti al laboratorio di musica che ci hanno donato i lamenti, le storie delle persone che provenivano dall’Accademia di Belle Arti più legate a un contesto di studio e ricerca…Per me è stato miracoloso ricevere aderenza da parte di tutti a farsi strumento di un’immagine che nessuno poteva vedere in anticipo essendo il lavoro site-specific 

In Oblio/Pianto del Muro il coinvolgimento era rivolto anche al fruitore che era chiamato a proseguire il lavoro sfilando e, così, disfacendo la parola “oblio” ricamata durante l’azione performativa.  

Di solito la manipolazione di un’opera d’arte è il risultato di un vandalismo che arriva dall’esterno, invece, in questo caso, è stato  interessante che il “distruggere diventasse un’azione per portare a compimento  l’opera. La cittadinanza, il pubblico che ha attraversato lo spazio, ha avuto la stessa importanza di chi ha ricamato l’immagine. Aver visto a Roma qualcuno con il cordoncino del ricamo legato al polso mi faceva intendere quanto sia necessaria questo tipo di relazione con l’opera. Un bene comune di cui anche chi ne è spettatore può essere parte attiva e, quindi, responsabile e partecipe dell’azione. 

 

L’installazione Oblio/Pianto del Muro ha abitato la Galleria delle Vasche de La Pelanda nei mesi di maggio e giugno, per concludere la nostra conversazione abbiamo chiesto a Muna Mussie in che modo ha esperito questa distanza dall’opera: 

 

Per me era una cosa totalmente viva, sentivo che in quell’arco di tempo ero partecipe di un’operazione che stava continuando. Il valore più grande era questo, di sentire che c’era ancora una relazione che sentivo continuamente attivata. Non c’era nessun tipo di attaccamento all’immagine estetica costruita, che sicuramente ha avuto il suo valore e che era un punto necessario della parabola, ma che anche nel suo deteriorarsi era qualcosa che si alimentava continuamente svanendo.  

  


   

[Parte di questa conversazione è stata pubblicata su Nero Magazine: https://www.neroeditions.com/the-shared-space-of-oblivion/] 

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Gli appunti in forma di diario raccolti qui raccontano il percorso fatto con le artiste e gli artisti del progetto Prender-si cura, un ciclo di residenze artistiche e produttive realizzate a La Pelanda, nel Mattatoio di Roma.
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
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