Silvia Rampelli è arrivata in residenza a La Pelanda per iniziare la ricerca su un nuovo lavoro che ha debuttato nell’edizione di Buffalo 2022 al Museo Macro di Roma. Da anni Rampelli, che ha fondato nel 2002 Habillé d’eau, progetto di ricerca performativa indipendente, lavora con le performer Alessandra Cristiani ed Eleonora Chiocchini e con il performer Valerio Sirna. Quest'ultimo è stato presente durante la residenza, insieme ad alcune danzatrici invitate a partecipare alle sessioni di lavoro della mattina.
Durante il nostro incontro, in una soleggiata mattina in un bar nei pressi del Mattatoio, lasciamo che sia Silvia a guidarci in un flusso di parole che ci conducono, con esattezza e poeticità scientifica, in ciò che ha sperimentato durante le giornate di Prender-si cura e nel suo metodo di lavoro.
Parto dalle cose reali: l’assenza di due danzatrici nelle giornate di residenza ha creato una accensione immaginativa, che è il senso delle prove. Potremmo dire che “la prova” è la capacità di vedere attraverso.
Condurre il lavoro consiste nel porre condizioni concrete d’esperienza, nel saper vedere la concretezza e attraverso la concretezza, spostando progressivamente le condizioni date, fino ad avvicinare l'oggetto della ricerca. Questo oggetto, chiaro all’inizio, nell’incontro con l’effettività si fa manifesto. Atto.
È al tempo stesso qualcosa che sai e che scopri: una coincidenza di immaginato, reale e mai conosciuto, qualcosa che è, al tempo stesso, previsto e imprevisto e che è fatto dell’incontro.
Cruciale è la concretezza delle condizioni, in grado di sollecitare nell’attore - come nello spettatore - un progressivo ampliamento della dimensione percettiva, che consente letteralmente di ricevere, di essere penetrato. Questa penetrazione - l’affioramento del presente - fa di me ciò che, istante per istante, effettivamente esperisco e sono. Non siamo mai “in assenza di”, siamo sempre "in situazione", in relazione, “in” un una pluralità di condizioni e circostanze che realizzano, al presente, ciò che siamo. Fuori dall’istante, dal radicamento in un tempo e in uno spazio, cosa significa altrimenti essere?
Nella pratica, esercitare l’aderenza alla concretezza, il dialogo con la materia attraverso la sensorialità, può dar luogo a un provvisorio riposizionamento dei confini del sé. L’incontro con l’Altro (il molteplice) consegna percettivamente una esperienza del sé aperta e in divenire. La domanda identitaria assoluta “chi sono?” si scioglie e si moltiplica nella fattualità, nella dinamica del dove e del quando. Questo allentarsi dei confini, questo temporaneo riconfigurarsi avviene unicamente nell’incontro e l’incontro non può che essere al presente, nel fatto.
Nel fatto ti incontri diversamente da come ti incontri nell’idea, ecco perché il fatto è ferita e, allo stesso tempo, scoperta, vita.
Non guardo ai linguaggi storicizzati della danza o della scena, non cerco nei libri, resto nella sensorialità, nell’osservazione, nel fenomeno. Tendo la ricerca verso uno stato, capace di sospendere qualcosa per incontrare altro. Verso un dato che non conosco.
L’esercizio mira a disinnescare l’idea che si ha di sé e del mondo, per provare a stare corporeamente in ciò che effettivamente accade, in ciò che percettivamente arriva. Più riusciamo a creare una situazione di apertura in cui sospendere il giudizio, il progetto, la convenzione, il saper fare, la tecnica e il linguaggio - ma come raggiungere questa apertura è una questione metodologica - più c’è possibilità che avvenga qualcosa di primigenio, che diventi un inizio, una via da percorrere.
Nel corso della residenza, l’altezza della sala, il rapporto tra la figura - la presenza - e lo spazio ha intensamente agito sul mio sguardo. Questo rapporto sconfinato tra figura e spazio è stato, per qualche ragione, commovente. Lo spazio muove per la sua natura toccante, tattile, corporea, per il metafisico che impone e come sempre è stato centrale nel lavoro.
Il Teatro 2 ha il volume di una cattedrale vuota con le navate alte, è uno spazio ascensionale, la cui grandezza e nudità ha nutrito la vita e la dinamica dei corpi. L’immensità che riverbera sulla figura mi ha dato la possibilità di riflettere, di spostare il pensiero su quello che immagino sia l’azione per Buffalo.
L’immensità mi sembra sia stato il dato portante anche in relazione alle tre persone che abbiamo ospitato per alcune ore di esercizio. Il grande vuoto ha visibilmente originato una conduttività nelle figure. La permeabilità del luogo ha reso, di fatto, possibile incontrare una propria permeabilità, uno stato reale di risonanza. Percepire può avere la forma di un incontro.
Del lavoro inizialmente avevo scritto: “ospite è il corpo che ignorando accoglie”.
Accogliere, dunque, non in virtù di una certezza, ma in virtù di un ignorare.
In potenza il non sapere comporta una disposizione all'apertura, che può coincidere con la disposizione dell’attore, come pure dello spettatore.
Nell’attitudine principiante, all’inizio di qualcosa, siamo uno di fronte all’altro con lo stesso non sapere e con la stessa potenziale disponibilità a farci modificare. Credo che questo sia in effetti accaduto. Il modo è stato quieto, fiducioso, basso, come l’acqua che, dal basso entra nella sabbia e scava e plasma formazioni impreviste. È stato un fertile grado zero. Questo scorrere aperto del tempo è confluito nelle linee di azione che con Valerio Sirna abbiamo costruito. Sono molto curiosa di vedere cosa accadrà ora.