a cura di Ilaria Mancia
Il Mattatoio si apre al pubblico che, per la prima volta dopo anni, può riattraversare, anche con lo sguardo, il grande viale centrale che collega il Lungotevere e il Ponte Testaccio con Piazza Orazio Giustiniani; si apre per accogliere due installazione di artisti contemporanei: Gaia di Luke Jerram (UK) e Thirst di Voldemārs Johansons (Lettonia). La prima sarà posizionata all’aperto, nel centro del complesso dell’ex-Mattatoio, la seconda in uno dei teatri ricavati all’interno della Pelanda.
La decisione di allestire queste due opere è un modo di rispondere all’eccezionalità della situazione determinata dalla pandemia e dalla quarantena; un tentativo di riprendere confidenza e possesso dello spazio pubblico, senza però evitare di riflettere sul nostro presente e sulle nostre paure. E’, probabilmente, la prima volta che tutti gli abitanti del pianeta pensano alla, e parlano della, stessa cosa, nella generale consapevolezza di una condizione condivisa a livello globale. Così Gaia appare a tutti noi, e non solo alle minoranze sensibili alle questioni ecologiche o climatiche, un luogo comune, uno spazio enorme e complesso, uno spazio interconnesso, in cui ciascuno sta facendo esperienza delle medesime cose da punti di vista e situazioni diverse. Per i Greci Γῆ, Γαῖα, era la terra in quanto suolo, da coltivare o su cui cadere, era il luogo di provenienza, o l’approdo a cui si arrivava dopo un viaggio in mare; non era certo quello che oggi visualizziamo grazie alle immagini scattate dai satelliti, alle foto fatte dagli astronauti in orbita intorno alla luna. Nell’immaginario contemporaneo questo oggetto, che da lontano sembra una pallina di marmo blu venata di bianco, è l’immagine stessa della bellezza, ma anche della fragilità, del rischio di trasformazioni irreversibili e catastrofiche in quanto totali, è uno dei tanti pianeti ma l’unico “mondo” che dobbiamo preservare e abitare creando alleanze che superino l’umano.
Come Gaia anche Thirst di Voldemārs Johansons, una video-installazione immersiva di un mare in tempesta, ci pone di fronte a una classica opposizione dialettica fra la contemplazione (l’ampiezza delle “vedute d’insieme” e il fascino delle diverse forme della potenza della natura) e l’esperienza diretta (stare nella cosa, toccarla o addirittura esserne investiti). Da una parte c’è il sublime – poter vedere qualcosa di terrificante stando al sicuro – dall’altra c’è il terrore rispetto a forze preponderanti e incontrollabili. Si dice che William Turner – che era un vero specialista di tempeste – nell’ansia, tipicamente romantica, di riuscire a “stare dentro” il sublime, a farlo proprio, si facesse legare all’albero maestro di navi che affrontavano il mare in burrasca. Forse la storia è inventata, ma è certo che i suoi quadri, che sono una delle fonti ispiratrici del lavoro dell’artista lettone, non sembrano mai visioni distaccate e rassicuranti. La tempesta ci travolge ma da un punto di vista in cui possiamo osservarla, abbandonandoci a una condizione impossibile e, allo stesso tempo, seducente.
“Sopravvivere su un pianeta infetto” (Donna Haraway) è possibile grazie alle alleanze con gli altri esseri viventi e grazie a tutto ciò che accade indipendentemente dalle azioni umane ma forse è possibile anche grazie alle opere d’arte, alla loro capacità di accompagnare la bellezza alla riflessione critica, il piacere all’elaborazione del trauma. Ci poniamo come osservatori a contemplare i fenomeni naturali, siamo spinti da un desiderio di “comprensione” che possa portare a stabilire con questi una relazione, per sentire responsabilmente che, come le piante, siamo fatti d’acqua e poggiamo a terra le nostre vite insieme alle altre creature.
Lo spazio sottostante Gaia, come lo stesso Jerram auspica, è uno spazio attivabile, utilizzabile anche da altri artisti: “Questo lavoro offre opportunità di collaborazione e accoglie stimoli creativi di altri. Mi piacciono i risultati inaspettati di un'opera d'arte, quando lascio spazio al pubblico o ad altri artisti di esprimere la loro creatività.” (L.J.).
In questa speciale occasione, sotto Gaia e sotto la sua luce, si sviluppa un programma di eventi che dialogano con l’opera o, semplicemente, condividono con questa lo stesso spazio potenziandosi reciprocamente. Gli artisti e teorici che hanno accettato l’invito mostrano con questo gesto il potere della collaborazione e del dialogo, la forza delle commistioni, superando la soggezione, rispetto a questo spettacolare oggetto-simbolo, grazie al potere di un’immaginazione aperta e malleabile e quindi doppiamente creativa.
Il programma include momenti performativi, incontri su tematiche ambientali e mitologiche, concerti di musica, laboratori per bambini e anche l’arrivo di una bandiera che attraversa Roma in una lunga corsa per giungere al Mattatoio portando con sé la domanda “is it my world?”.