GIULIA CRISPIANI | UNA LETTERA D’AMORE. PER NON SEPARARE IL VISIBILE DALL’INVISIBILE

29 marzo - 2 aprile 2021

Diario 2021 - 2022
Diario 2021 - 2022

 
Con Giulia Crispiani e Patrizia Rotonda ci siamo incontrate nel Teatro 1 de La Pelanda per questa conversazione. L’attenzione è andata subito sul quaderno di Giulia, conoscendo la sua passione e la sua pratica di scrittura. Giulia racconta che usa quaderni che hanno la stessa forma dei diari del liceo, ricorda di aver avuto diari enormi legati con un elastico per non perdere le cose dentro, evidenzia come probabilmente è, anche, da lì che proviene la passione per la corrispondenza. 

Il lavoro che in questi giorni ha iniziato in residenza parte dalla pratica di scrivere lettere, in particolare quelle d’amore. Ha coinvolto Patrizia in una nuova ricerca artistica, iniziata nell’ambito di questa residenza, volta a indagare la corrispondenza amorosa in un senso ampio andando a toccare anche argomenti come il lutto e il lamento, partendo, coadiuvata dal lavoro sulla musica e il canto di Patrizia, dalla tradizione popolare. Durante questa residenza, dopo aver lavorato in molte occasioni con la performance nelle arti visive, Giulia si è misurata con lo spazio teatrale, la scatola nera del Teatro 1 che ha accolto l’inizio di questo nuovo percorso. 

 

 
 

2.4.2021

 

Paola Granato: Come vi siete incontrate?

 

Giulia Crispiani: Marta (Federici) mi ha invitato alla galleria Gavin Brown a Roma per presentare la performance sul Manifesto contro la nostalgia. Con Golrokh Nafisi, autrice insieme a me del lavoro, ne avevamo fatto una versione a Teheran collaborando con dei musicisti locali che suonavano uno strumento particolare: un corno di due metri che “suona” delle parole, le enuncia.

La nostra idea è quella di far viaggiare il Manifesto, tradurlo ogni volta nella lingua del paese ospitante e trovare un intervento musicale che amplifichi l’enunciazione, che sia ogni volta diverso.

Quando lo abbiamo pensato per Roma ero indecisa, per la parte musicale, tra il canto popolare e la banda. Mi sono messa in contatto con la Scuola di Musica Popolare di Testaccio e mi hanno segnalato Patrizia. Io conoscevo e avevo pensato al lavoro di Giovanna Marini, con cui Patrizia ha collaborato come assistente.

 

Patrizia Rotonda: Giulia ha trovato, in realtà, entrambe le cose che cercava. Alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio conduco un laboratorio di banda vocale, l’idea del laboratorio nasce dalla lunga frequentazione di processioni e contesti di cultura popolare in cui la banda è sempre presente. A Sessa Aurunca, provincia di Caserta nella parte vicina al Lazio, mi è capitato di ascoltare la banda che ubriaca in taverna cantava quello che aveva appena suonato. Da questo episodio è nata l’idea del laboratorio e, come spesso succede, le idee nascono in contemporanea. Infatti: Giovanna Marini realizza un concerto a partire dal repertorio per banda, Antonella Talamonti inizia a scrivere per banda, e io ho deciso di applicare questo approccio alla didattica. Nella banda non si usano le sillabe per suonare, ho subito pensato che potesse essere interessante per i cantanti che, invece, associano sempre il suono alla sillaba. E poi, quello ottocentesco italiano è un repertorio magnifico da scoprire. Quindi ci siamo messe tutte e tre a scrivere e trascrivere per banda senza dircelo. Per Giulia è stata una coincidenza incredibile. 

 

Giulia Crispiani: Quando abbiamo lavorato insieme non è stato solo un accompagnamento ma una vera e propria collaborazione, Patrizia ha diretto anche noi, proponendoci una struttura per l’enunciazione del Manifesto.

Finita quell’esperienza ci siamo lasciate dicendo di rimanere in contatto e io ho sempre pensato a come tornare da lei. Quando ero qui ho pensato che l’occasione fosse troppo interessante per non approfittarne.

Dopo telefonate, incontri e una chiamata zoom, abbiamo iniziato a lavorare a questo nuovo progetto. Le avevo mandato dei testi che avevo già usato in altre performance per raccontarle che cosa è per me la lettera d’amore. L’idea è quella di coinvolgerla sia come esperta di canto di tradizione orale ma anche come cantante. A lavorare solamente sulla lettera d’amore sentivo che mancava qualcosa, mi sentivo addosso un’attitudine predicante.

 

Paola Granato: Giulia, alla fine sarai in scena?

 

Giulia: Ad ora, passata questa settimana di residenza, penso di sì. All’inizio non ero sicura, ma in questi giorni abbiamo lavorato con l’improvvisazione, come due nuclei che entrano in dialogo.

Abbiamo già delle registrazioni dove lei improvvisa sui miei testi oppure dei cantanti o Julie (Normal) che suona e io scrivo live.

 

Paola Granato: Quando sono entrata durante le prove ti ho vista scrivere mentre sul palco si succedevano degli accadimenti, era molto bello e scatenava curiosità.

 

Giulia Crispiani: Abbiamo pensato addirittura di farlo dal vivo su uno schermo, in modo che si possa vedere che cosa scrivo. Va testato perché mi espone in modo rischioso.

 

Paola Granato: Durante la residenza sono entrata in sala e vi ho sentito lavorare ad alcuni brani. Come state lavorando, anche in relazione alle lingue che questi canti mettono in campo?

 

Patrizia Rotonda: L’altra volta hai sentito degli Stabat Mater in latino e un pezzo corso. C’è da dire che il lavoro sulla musica di tradizione orale, molto spesso, è una base d’ispirazione ma spesso tramutato in scena diventa un’altra cosa. Lo Stabat Mater probabilmente non ci sarà, ma è un materiale che ci serve nel processo. È un canto di dolore, è la Madonna che canta il proprio dolore per il Cristo sulla croce quindi ha a che fare con amore e dolore. Con i cantanti abbiamo fatto un’improvvisazione sullo Stabat Mater. Ne avevamo uno ciascuno, di regioni diverse; all’inizio abbiamo lavorato su un dolore soggettivo, poi le voci convogliavano su un unico Stabat Mater, passando, così, dal soggettivo all’universale.

La questione della lingua non si pone, per una ragione che, forse, contraddice in parte il lavoro che fa Giulia con le parole. Trovo bellissima questa sua capacità di esprimere sentimenti, per me

è come se facesse una fotografia (perché la scrittura è un segno, quindi in questo senso una fotografia) dei sentimenti, attraverso anche la musica. Però, per assurdo, la parola può non essere compresa, basta il suono, o l’idea dello Stabat Mater, parla lui non le parole.

 

Giulia Crispiani: Mi piacerebbe raccontare come abbiamo lavorato questa settimana. Abbiamo attinto a un repertorio. Ho messo sul tavolo dei sentimenti quali: il compianto collettivo, l’amore, lo sfogo. Uno sfogo che equivale a un funerale e che va sostenuto collettivamente, dandosi energia a vicenda.

Patrizia ha condiviso una serie di dispositivi, così li definisco: temi che ha individuato nella mia scrittura. Per ogni tema ha scelto uno o due canti di repertorio che rispecchiavano queste aree: 

l’amore anarchico, un certo tipo di violenza, la magia, l’abbandono. Sono canti di diverse provenienze o lingue che esprimono questi sentimenti attraverso melodie, cesure o toni del canto. 

Da fuori questi canti arrivano come un movimento che passa dallo stomaco, dalle spalle, dalla gola. L’intenzione era quella di partire dall’immagine del canto che ha a che vedere con la leggibilità linguistica. In alcuni canti ascoltiamo delle parole molto chiare come, ad esempio, “voi che versate lacrime”, in altri, anche se le parole non si capiscono, arriva un sentire.

Tutti questi canti hanno a che fare con una simbologia che è in relazione con un apparato magico, rurale, religioso. Essendo scritti dal popolo rispecchiano determinati sentimenti, anche Cristo, ad esempio, diventa simbolo di altro.

Con Patrizia pensavamo che se ci interessa una melodia possiamo riscrivere il testo. 

Uno dei dispositivi che ci ha interessato fin dall’inizio è quello dello scongiuro. È recitato in maniera molto veloce, ci sono gli scongiuri meteorologici per favorire il raccolto, quelli per il malocchio e quelli d’amore. Patrizia mi ha proposto di scrivere uno scongiuro, richiede una velocità a cui non sono abituata, perché di fatto non ho mai scritto per il ritmo. È un esperimento interessante, perché in principio era la mia scrittura e il mio dispositivo di lettera d’amore in comunicazione con un tipo di tradizione orale, in questa modalità si rimette in circolo tutto.

È come se la mia voce venisse informata da tutta questa genealogia ancestrale e viceversa, per far risuonare questa genealogia in un evento collettivo contemporaneo.

 

Patrizia Rotonda: Il terreno sul quale ci siamo confrontate, che poi è quello che sta alla base del mio lavoro, è stato i canti di tradizione orale e la cultura popolare.

Le lunghe discussioni iniziali sulla cultura popolare ci hanno aperto a diversi temi e a diverse possibilità. Ci tenevo a distinguere tra popolare e canto di tradizione orale. Il canto popolare è oggi inserito in un serbatoio che si chiama popular music che ha dentro il pop, il reggae, il funk. Noi partiamo dal canto di tradizione orale che è quello della cultura popolare rurale, dove c’è un senso di maggiore appartenenza, di comunità, una non separazione tra visibile e invisibile. Nella popular music, c’è chi scrive per il popolo, mentre nel canto popolare è il popolo che scrive. Sono dei canti d’autore che vengono tramandati ma poi ogni cantore lo fa proprio, improvvisando, facendo abbellimenti diversi. Diventa di chi lo canta. Prendiamo come ispirazione questi canti per poi ricomporre. Un’altra cosa che abbiamo fatto è lavorare con l’improvvisazione, che per me è legata al popolare, come metodo nostro per far emergere delle cose da fissare in un secondo momento. Rappresenta l’effimero, il presente, il momento attuale, è adesso e mai più, quindi da qui l’idea di mettere in scena Giulia che scrive, in un certo senso improvvisa, su un pezzo di musica. 

 

Giulia Crispiani: L’improvvisazione è per noi una metodologia concettuale, ma anche una possibilità di condivisione. Il mio nucleo di scrittura si apre verso il canto e viceversa, c’è un’intenzione comune.

 

Paola Granato: La lettera d’amore resta la macrostruttura?

 

Giulia Crispiani: Sì, anche se non so mai come approcciare questo discorso. La lettera d’amore è il momento dell’imbarazzo, della necessità, dell’urgenza per eccellenza. Tutto è soggettivo sia nel destinatario che nello scrittore, ma è una cosa che facciamo tutte, che abbiamo fatto e che faremo. Ha un potenziale politico gigantesco, nell’espressione dell’urgenza, della rabbia, dell’amore, nel sentimentalismo dell’urgenza, nel non usare filtri, perché è una sorta di vomito. È un eccesso perché non richiede risposta, non è un dialogo ed è in balia delle contingenze postali. Non la scrivi solo per un amante, ma a un ideale, un partito politico. È un terreno vasto che sfugge ai generi letterari. Ci sono i romanzi di un’autrice e di un autore e poi si ha la raccolta epistolare che viene pubblicata postuma, una volta che questa persona è stabile all’interno di un panorama culturale. La lettera in generale è quell’eccesso letterario che racconta genuinamente l’autore, andando al di là. È in un certo senso la morte dell’autore. Nella sua immediatezza è il gesto generoso per antonomasia, proprio nel suo essere eccesso, perché richiede uno scambio che non è detto che ottenga. Non ha autorialità, non è un prodotto e si concentra solo su questa interlocuzione senza sapere l’effetto che susciterà. Tutto quello che c’è è in eccesso ed è espanso.

 

Patrizia Rotonda: Mi colpisce che quando Giulia scrive queste lettere ha sempre un riferimento femminile. 

 

Giulia Crispiani: Uso spesso il plurale femminile, saltando dall’ideale all’amante, dall’amante al tu; e in italiano va declinato comunque. Uso il femminile plurale un po’ dalla proposta del libro di Andrea Long Chu Femmine, un po’ per comodità e un po’ perché - come mi ha aiutato a definire Patrizia - è come se parlassi alla parte femminile, sensibile, generatrice che c’è in chiunque. Non faccio una distinzione di genere, è una scelta letteraria. Mi piace avere l’immaginazione di un mondo in cui siamo tutti madri. Non nel senso biologico del termine, ma dal punto di vista della cura verso il prossimo. Rimescolando le carte di un discorso tradizionale di una casa che non è una casa e noi che non siamo casalinghe, mi riferisco a un concetto espanso di cura e sostegno reciproco. È ovviamente una speculazione il voler connettere le lettere d’amore a una certa tradizione popolare. La lettera d’amore e la poesia sono un eccesso del linguaggio, così come lo è il canto popolare nella sua impossibilità di entrare dentro una partitura, nel suo non essere misurabile, non costruito su toni o note temperate. Mi sembra, così, di costruire un dispositivo di lettera d’amore collettiva. 

 

Paola Granato: Prima Patrizia parlava della non separazione tra visibile e invisibile come caratteristica della cultura popolare rurale. Può la lettera d’amore essere un dispositivo per convocare qualcosa d’invisibile e mettersi in connessione con quella dimensione?

 

Giulia Crispiani: Le mie lettere d’amore, come tutto il mio lavoro, hanno a che fare con il desiderio e con un reinserimento a gamba tesa del piacere dentro il fare. C’è tanto di desiderato e desiderante dentro la potenzialità della lettera d’amore e di un ritorno a un certo tipo di collettività. Abbiamo parlato molto con Patrizia del rito, in cui c’è un automatismo fisico. È come se fosse un petto espanso, un cuore che batte all’unisono.

 

Paola Granato: L’altro giorno la cantante che ha provato con voi parlava di cantare vicini, questa vicinanza del corpo che aiuta il canto e che oggi siamo impossibilitati a fare. 

 

Patrizia Rotonda: È una particolarità del canto di tradizione, a differenza del coro. Nel canto di tradizione popolare non esiste il coro in senso classico, in cui si tende a uniformare, come se le voci dovessero formare un solo suono. Nel canto di tradizione è fondamentale che ognuno rimanga sé stesso e che canti con la propria voce perché i suoni possano creare degli armonici e un’infinità di altri suoni. La vicinanza fisica è importante perché si sente il suono sbattere, una sensazione bellissima da vivere. Il suono è una cosa fisica, ha una velocità che è poco inferiore a quella della luce. Lo senti come energia e come forza e cantare vicino è fondamentale.

 

Paola Granato: È interessante intendere la collettività non come diluita, ma come un insieme di soggettività.

 

Giulia Crispiani: Abbiamo parlato anche di questo. È come se fosse un cosmico e non un universale, un soggettivo e non un individuale.

 

Paola Granato: Il lavoro sul malocchio, in cui è presente il dialetto delle Marche, la regione dalla quale provieni e le interviste alla tua famiglia, quanto sta informando questo nuovo progetto?

 

Giulia Crispiani: All’inizio non ci avevo pensato. Dopo che Patrizia ha visto i miei lavori, mi ha detto che quello l’aveva particolarmente toccata, per i timbri della conversazione e il dialetto.

 

Patrizia Rotonda: Anche per una componente che ha a che fare con la tenerezza.

 

Giulia Crispiani: Sicuramente c’è una parte più spontanea che ha a che fare con alcune cose che stiamo facendo, ma anche i temi magici trattati. Mi capita spesso di iniziare a parlare del magico e di avere davanti qualcuno che ne ha avuto esperienza o che ha qualcuno in famiglia che lo pratica, è parte del reale. 

Il primo giorno Patrizia ha condiviso le macro-temperature che aveva individuato e la magia era presente fin da subito. Gran parte delle registrazioni della tradizione orale affrontano questo aspetto magico del rurale. Io sono cresciuta in campagna con questo materiale, per me non è né affascinante né esotico. Provo sempre diffidenza nei confronti dell’antropologo che viene dalla città e esotizza. Rende tutto intellettuale, come lo psicologo che patologizza dei fenomeni collettivi che, in realtà, sono vita. Per me è interessante rilevare questa interruzione repentina di un meccanismo: fino agli anni ‘90, andare dalla guaritrice era come andare dal dottore. All’improvviso si è smesso di parlarne, ci si torna con uno sguardo zoologico invece di riconoscere che è stato solo occultato da saperi ritenuti ufficiali. È la questione dell’università sul sapere orale. Alcune cose sono state messe in imbarazzo, “bestializzate”.  Di alcuni testi che abbiamo usato e delle trasmissioni delle Teche Rai, che sono ricognizioni sul rituale magico, ho scritto alcune parole: polemica antimagica, controllo tecnico sulla natura, il canto popolare perde la relazione con l’evento luttuoso e diventa tradizionale, diventa folk…la società moderna aiuta a dimenticare. C’è una zoologizzazione e un occultamento di alcune pratiche, in un certo senso si tratta di una colonizzazione, che fa prevalere il progresso su altre modalità di espressione. 

C’è anche la questione linguistica: miracolo o guaritrice è una fiducia verso il futuro, perché una vale e l’altra no? Una è sacra e l’altra è demoniaca.

 

 

Scongiuro – parte I e Scongiuro – parte II hanno debuttato nella cornice di Short Theatre 2021.

Giulia Crispiani è stata inoltre protagonista di una delle serate di re-creatures 2021 con il lavoro The city we imagine realizzato insieme all’artista Golrokh Nafisi.                                         

parte di

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Gli appunti in forma di diario raccolti qui raccontano il percorso fatto con le artiste e gli artisti del progetto Prender-si cura, un ciclo di residenze artistiche e produttive realizzate a La Pelanda, nel Mattatoio di Roma.
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
13 luglio, ore 12-13