MICHELE RIZZO | COREOGRAFIA DI CORPI SCOLPITI

17 giugno - 23 agosto 2020

Diario 2020
Diario 2020

 

30 aprile 2020
Roma → Amsterdam
Durata: 01:13:21
 

Michele sarà in residenza a La Pelanda per un lungo periodo e preparerà un lavoro che sarà presentato all’interno della mostra Fuori XVII edizione della Quadriennale di Roma. Entriamo con lui nel nuovo progetto, consapevoli che siamo partecipi di un “segreto” che accompagnerà le nostre conversazioni fin che il lavoro non verrà presentato a ottobre.
La pratica scultorea sarà il punto di partenza di un progetto ampio e stratificato in cui la performance e la coreografia interverranno su vari piani. Primo fra tutti quello del reale, in cui Michele sceglie di inserire la scultura, elemento per noi nuovo della sua ricerca, di cui ci racconta l’origine.

Dopo il diploma in coreografia, ho frequentato il master in arti visive al Sandberg Institute di Amsterdam, e lì ho scelto di cimentarmi con la scultura. Il mio progetto era incentrato sulla performatività del quotidiano, sull’idea che tutto è performance e che siamo continuamente in questa condizione. Anche il gender, del resto, è performance. Potevo scegliere di “performare” il ruolo dell’artista visivo. Non ero interessato all’aspetto sociale della questione, ma volevo concentrarmi su una prospettiva più creativa. Questa intuizione si è evoluta nell’idea di “diventare” l’artista visivo per eccellenza che, forse per le mie reminiscenze infantili, ho identificato nello scultore. Per poter incarnare questo ruolo, pur non avendo mai studiato, come in una performance, ho approcciato la tecnica scultorea con l’atteggiamento di chi la conosce già nei dettagli. Ho realizzato, allora, la scultura di un raver collassato tra estasi e dolore.
 

Scrive Susan Sontag ne La coscienza imbrigliata al corpo:

«Questa facoltà di suscitare veramente in sé un’individualità altrui (non solo di illudere con un’imitazione superficiale) è ancora del tutto sconosciuta e si fonda su una penetrazione sommamente strana + su una mimica spirituale. L’artista fa di sé tutto ciò che vede e vuole essere.»
 

Nel pensare alla performance come “attivazione di oggetti”, nell’interagire costantemente con altre dimensioni, ma anche con elementi scenici che portano in sé la matericità della scultura e dell’architettura (in particolare in Spacewalk); il percorso di Michele appare fortemente organico. La parola che viene in mente è “emersione”, nei suoi lavori la danza emerge così come emerge il volto dalla creta.

I miei lavori precedenti, Higher, Spacewalk e Deposition, erano collegati al tema del cambiamento di stato della materia dal punto di vista della fisica. Mi interessava creare un parallelo tra diversi spazi, tipi di realtà e stati materici: uno stato liquido legato al quotidiano, uno più etereo e volatile, quello dell’immaginazione, che per Higher ho spesso definito come lo spazio della trance e, infine, uno stato più concreto e fisico, che è, in Deposition, il ritorno da uno spazio virtuale al qui e ora e al corpo umano come oggetto fisico.
Questa traiettoria mi ha portato a pensare a un corpo statico e materico e, quindi, nuovamente alla scultura.
Il materiale con cui lavoro è la creta, che ha una qualità plastica e una memoria e consente una meccanica di relazione molto chiara con il movimento. È, inoltre, uno dei materiali più semplici da lavorare, servono pochi strumenti, o nessuno.
Quando lavoro, lo stato mentale in cui sono immerso è vicino alla percezione del tempo e del corpo che ritrovo nella mia danza. Una danza che potrei definire meditativa, in cui c’è un distaccamento dell’ego dal corpo, il movimento diventa un’entità altra che si osserva e si riesce a percepire da fuori. Mi piace scolpire il corpo umano. Inizio a definire il corpo fino a che l’oggetto non inizia a parlare sotto le mie mani. La sensazione iniziale è quella di una similitudine con me stesso, mi sembra di possedere quel corpo. All’improvviso si intravede un muscolo, un ginocchio e si innesca un processo diverso in cui il corpo scolpito diventa un’altra entità, una fase di separazione da me che si trasforma in relazione, a tratti dal tono quasi erotico. In questo andamento la scultura è simile alla danza. Da sempre lavoro con il corpo e questo mi rende familiare l’approccio a entrambe le discipline. In Higher la danza era in se stessa considerata come una agency capace di scolpire l’identità di movimento del danzatore o della danzatrice, in un processo in cui la ripetizione agisce come uno scalpello, che incide, leviga, definisce.


In Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Georges Didi-Huberman scrive, nel capitolo dal titolo La santa e i suoi resti, sulla statua di Santa Cecilia di Stefano Maderno:

«La statua di Maderno sembra voglia fissare questa durata improbabile: la giovane santa immobile per tre giorni sul pavimento, agonizzante e con la testa semistaccata mentre non cessa di elargire fede e bontà; ovvero, la santa non ha conosciuto la quiete nella postura così strana della sua morte. Maderno volle aggiungere una grossa goccia di sangue – bianca come latte di pietra – che stilla dalla ferita. Il velo che ricade sul capo e si spande lì accanto è sostituto di un fiotto ben più spaventevole: dopo tutto santa Cecilia è posta su una lastra di marmo come un animale abbattuto, dal cui collo il sangue sgorga copiosamente.

(…)

Ella era adagiata sul lato destro, le ginocchia appena ripiegate, una stoffa leggera di seta verde, rigata di rosso scuro, avvolgeva interamente il suo corpo disegnandone esattamente le linee. Sotto il velo, una veste intessuta d’oro, macchiata di sangue, brillava tenuemente. Le persone presenti, alla vista della giovane santa che sembrava stesse dormendo, furono prese da profondo rispetto. Nessuno osò sollevare il velo, disse Baronio «sembrava che il fidanzato vegliasse la fidanzata addormentata». Quando Clemente VIII giunse da Frascati per «contemplare» il prodigio volle che la santa rimanesse intatta e ordinò di rinchiudere l’intera bara di cipresso in un involucro argenteo disseminato di stelle.

In questo avvenimento e nel suo derivato spettacolare – la statua stessa – si possono rintracciare non meno di tre tipi di invenzione. Il primo da intendere in senso archeologico, è legato alla scoperta (inconfutabile) di resti corporei risalenti, probabilmente, alla fine dell’antichità. Il secondo attiene all’invenzione agiografica, imperniata sul «particolare toccante» (la celebre postura) che è stato reso possibile dal carattere miracoloso dell’integrità (interezza, non corruzione) del corpo della fanciulla. Da questi fatti prende avvio l’invenzione propriamente artistica, che prolungherà il miracolo del corpo nel prodigio della rappresentazione.»

Quella di Michele sarà una coreografia di corpi scolpiti. Ad accompagnare le sculture all’interno di Palazzo delle Esposizioni – sede espositiva de La Quadriennale – saranno corpi di performer che sembrano emanazione diretta di quelli fissati nella creta.
A differenza di Santa Cecilia, di cui ci racconta Didi-Huberman, i soggetti ritratti da Michele vengono colti in uno stato di quiete. Non stiamo parlando di “un eterno riposo” ma di una fase di passaggio. Si tratta, anche in questo caso, di fissare una durata improbabile. I volti e le posture, seppur nel riposo (di cui ci parlerà Michele più avanti), recano in sé qualcosa di perturbante che sembra abbia a che vedere proprio con lo scorrere del tempo fissato nella creta.

Il lavoro, che si chiamerà Rest, vuole concentrarsi sulla fase del riposo del raver e sarà, in un certo senso, la celebrazione di questa figura in un momento specifico della sua esistenza. Sto esplorando i materiali coreografici che aiuteranno la costruzione del lavoro e, uno degli elementi su cui mi sto concentrando, riguarda le processioni del sud Italia. Sono nato in Puglia, a Galatone, dove la tradizione delle processioni è molto forte. Penso, ad esempio, alla settimana santa e alla processione dei misteri, con tutte le stazioni della via crucis, o alla Festa del Santissimo Crocifisso, che si tiene nel mio paese in maggio. Quando visualizzo le sculture ho in mente le statue del cristo morto o della madonna addolorata, che si trovano nelle chiese barocche della provincia di Lecce, e che vengono portate in processione nella giornata del venerdì santo.

 

Sto leggendo Il pensiero meridiano di Franco Cassano e vorrei condividere con voi un brano per me particolarmente significativo:

«È sul Mediterraneo (“una macchina per fare civiltà”-1994a, 276) quindi che si è formata quell’inquietudine (all’uomo moderno “manca perennemente tutto ciò che non esiste” -1994b, 65), quell’ostinazione del superamento del limite che Valéry vede come caratteristica della civiltà europea. Ma in questa civiltà l’uomo vive ormai come accerchiato dalla crescita smisurata delle protesi sempre più sofisticate che riesce a porre in essere, perde il suo equilibrio ed è costantemente occupato e ossessionato dalla propria immaginazione produttiva. Lo Spirito è un apprendista stregone, esso è salpato e vive eternamente in mare avendo ormai smarrito l’idea stessa del limite e del ritorno. Anzi qualsiasi idea di limite o di ritorno lo insospettisce: nulla “è per noi più difficile da concepire della limitazione posta dalle velleità intellettuali e della moderazione nell’uso della potenza materiale” (1994a, 148). E la stessa retorica dell’accelerazione e della velocità, la legge sempre più soffocante del nostro tempo, è al fondo una tendenza automatica, “una forma di azione minima, una semplice comodità” (1994a, 149).

Questa forma di pensiero-comodité (che richiama forse non casualmente l’inglese commodity, merce) viene scambiata per il pensiero. É qui la radice della crisi del pensiero, del suo arrendersi al predominio della tecnica: il mare ha vinto e la terra scompare per sempre all’orizzonte: d’ora in poi vale solo il pensiero che vive sempre in alto mare e che ha rimosso le idee stessa del limite, del ritorno, della terra come superstizioni, timidezza o regressioni. L’aver sostituito al vecchio infinito quello della tecnica significa solo aver cambiato il lato della dismisura.

Il tema della perdita dei limiti ritorna nel piccolo grande libro di Carl Schmitt, Terra e mare. Qui la riva e la costa non esistono più, mare e terra si contrappongono e viene formulata la critica più radicale del mare. Per l’uomo, “essere di terra che calca il suolo”, che “staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento” (19865, 33), il mare è solo un principio di sradicamento, rappresenta la tentazione diabolica, l’adescatore che lo spinge verso lo smarrimento più feroce e verso l’idolatria della tecnica. Con il mare Prometeo perde le proprie catene e trascina l’uomo verso lo smarrimento. Lo spirito della costa e del confine, il Mediterraneo, sono semplici momenti di transizione verso la dismisura che il mare porta con sé. Il mare non può essere che Oceano, come ogni donna non può essere che una peccatrice. Non è quindi un caso che la rivoluzione industriale si produca nell’isola Inghilterra affondata nell’immensità degli oceani. (…) Dopo che tutto il mare è stato conquistato, l’uomo assalterà l’aria e lo spazio sognando di mettersi in viaggio per il cosmo in astronave. Schmitt si ritrae inorridito di fronte a questa prospettiva e auspica il ritorno dell’uomo nel grembo della terra dopo l’era della perdizione e dello smarrimento: “credo che l’uomo, dopo la difficile notte di bombe atomiche e di simili orrori, un mattino si risveglierà e grato si riconoscerà figlio della terra saldamente fondata” (1986, 109).»
 

Il riferimento immediato sentendo parlare Michele di Sud, processioni e rituali è a Ernesto de Martino. In un saggio a lui dedicato, dal titolo I mondi magici di Ernesto de Martino, Fabio Dei scrive:
«Ma la collana viola (n.d.r. di Einaudi) è inaugurata nel 1948, proprio da un libro italiano, Il mondo magico di Ernesto de Martino.
L’autore è un quarantenne studioso napoletano, formato alla corte dello storicismo idealistico di Benedetto Croce ma interessato (diversamente dal maestro) ai temi dell’etnologia e delle religioni primitive. Egli intende “riformare” in senso storicistico queste discipline, correggendo l’impostazione positivistica che nell’Ottocento diede loro vita. E nella magia vede appunto il problema cruciale, lo “scandalo” che ci costringe a mettere in discussione le nostre usuali e scontate categorie di pensiero. Dal punto di vista della storia culturale europea, l’essenza stessa della magia consisterebbe nella sua illusorietà, nel fatto che non corrisponde alla realtà. Ma, si chiede de Martino – è possibile pensare a condizioni storiche in cui la magia non è così palesemente illusoria e mantiene invece un rapporto con la “realtà”?
La tesi del suo libro è che l’umanità arcaica avesse a che fare con un “problema storico” peculiare, quello della stabilità della “presenza”. Nel linguaggio di de Martino “presenza” indica l’autonomia del Sé individuale, e la netta separazione tra Sé e mondo, tra soggetto conoscente e realtà che viene conosciuta.
Questa separazione noi la diamo per scontata: la vediamo semmai minacciata nei casi di crollo psicopatologico, come nelle forme di schizofrenia. Ma in un arcaico “mondo magico” non era così: la presenza rischiava costantemente di entrare in crisi, di perdersi di fronte alle minacce di forze esterne e incontrollabili. Ora in un tale mondo, il rito magico rappresentava uno strumento culturale di protezione o di riscatto rispetto alla labilità della presenza. Attingendo alla letteratura etnologico sullo sciamanismo, de Martino mostra come il rito magico agisca in modo da simulare, configurare in modo culturalmente ordinato e infine oltrepassare il momento di crisi. Lo sciamano entra in trance di fronte all’intero gruppo sociale: perde la propria presenza in modo controllato, solo per riconquistarla alla fine più stabilmente, per sé e per l’intero gruppo.»

Queste parole risuonano pensando al lavoro di Michele, alla sua concezione di danza come esperienza estatica e rituale collettivo, al suo operare e attraversare diversi piani spaziali e stati corporei; alla possibilità di agire sulla realtà attraverso qualcosa di, solo apparentemente, lontano.

 

18 maggio 2020
Roma → Amsterdam
Durata: 01:24:23
 

In questa seconda conversazione iniziamo facendoci raccontare da Michele l’acquisizione, da parte dello Stedelijk Museum di Amsterdam, della performance Higher xtn, la versione per spazi museali del lavoro omonimo per il palcoscenico. È per noi un ritorno al tema dell’archivio, già affrontato in altre conversazioni. Cosa vuol dire oggi per un’istituzione museale acquisire una performance?

Stedelijk Museum ha acquisito Higher xtn. nella forma in cui è stato presentato ad Amsterdam nel 2019. Si tratta di otto performance divise in quattro fine settimana, in ognuna delle performance il numero dei performer gradualmente cresce, passando da due a quattordici.
 

 

 
 
Ci stiamo interrogando su come registrare formalmente il lavoro, pensiamo a una serie di documenti scritti e forse a dei video. Si presentano due scenari su cui lavorare: quello in cui sono in vita e quello in cui non ci sarò più. Dobbiamo capire come costruire i diversi materiali d’archivio, che possano essere utili alle ripetizioni future.
Higher xtn. ha come tema di partenza il fenomeno del clubbing, si basa sull’idea di guardare alla danza come a un oggetto scultoreo che definisce l’identità del danzatore, che chiamo “l’identità di movimento”.
Nella fase ideativa di Higher xtn. ho usato, come materiale di lavoro, alcuni video di youtube, anche se la fonte principale deriva dalla mia esperienza di danza in discoteca. Il video, formato che mi piacerebbe esplorare di più, mi è servito per approfondire alcuni stili di movimento come il Melbourne, lo Shuffle o la Konijnendans, danza del coniglio, tipicamente olandese.
 
 


 
 

Per la seconda parte della conversazione abbiamo invitato l’amico e antropologo Andrea Carlino, pensando che questo incontro potesse essere per Michele stimolante e utile.

Michele Rizzo: credo ci sia un aspetto religioso legato all’esperienza del ballo in discoteca che, per me, è più un rituale trascendentale che un puro divertimento. Penso alla danza come esperienza estatica, nella quale interviene principalmente la mente pur coinvolgendo tutto il corpo. Nella fase del riposo, che sarà al centro del lavoro Rest, vorrei evidenziare questa planata della coscienza nel suo ritorno al corpo, a uno stato di sensazione corporea ordinaria (se questa esiste).
 

Andrea Carlino: per assurdo si potrebbe dire che qualunque danza può portare a questo stato.
 

M.R.: sì, però vorrei concentrarmi sulla parte del rave che non è tanto conosciuta, quella appunto del riposo.
Le sculture che sto creando sono in creta, lavorare questo materiale è per me un’esperienza molto vicina alla danza. Quando modello la creta vivo un’esperienza simile a quella dell’essere in trance.
 

A.C.: ci sono due modi per arrivare alla trance: la ripetizione di alcuni movimenti e l’uso di droghe. L’estasi della droga poteva essere sostituita da quella religiosa. La questione del movimento è comunque presente, mi raccontavano che hai come riferimento l’estetica della processione, ma non ci sono movimenti di quel tipo nelle processioni.
 

M.R.: penso, ad esempio, all’oscillazione del corpo di chi trasporta le statue o alla cadenza ritmica degli spari dei fuochi d’artificio durante le processioni. Questi riti contengono elementi che rimandano a una percezione al di là dello spazio fisico e, probabilmente, coadiuvano il raggiungimento di questa da parte di chi vi partecipa.
 

A.C.: il corpo, qualunque esso sia, esposto in uno spazio pubblico, implica sempre un rituale, che deve essere coinvolgente. Nel rituale del teatro anatomico questo inizia quando il corpo è vivo, non solo quando è adagiato sul tavolo anatomico per la dissezione. Tre anni fa abbiamo partecipato alla Festa di S.Pietro e Paolo, la festa delle “tarantate” a Galatina, con un lavoro pensato insieme al coreografo Alexandre Roccoli, sostituendo la musica tradizionale con musica contemporanea. A proposito di questo mi viene anche in mente il lavoro dei Sud Sound System. Negli anni Ottanta, Georges Lapassade andò in Salento e studiò il lavoro dei Sud Sound System, definendoli i nuovi “tarantati”.
 

M.R.: Una parte delle performance consisterà nel trasporto delle sculture a spalla da parte dei performer, un chiaro rimando alla mia fascinazione per le processioni.
Vorrei unire l’aspetto coreografico con quello iconografico. Il lavoro sarà in qualche modo un inno al riposo, ma anche una riflessione su come esso sia anche il privilegio di alcuni (c’è chi riposa e chi sostiene). Penso che quella del riposo sia un’attività che meriti più attenzione, in una società che incita all’accelerazione quale è la nostra. Il raver, il cui corpo è accelerato durante il party, necessita di riposo per far si che si inneschi nuovamente uno stato festivo. Questo soggetto si propone quasi come un archetipo dell’umano contemporaneo.
 

A.C.: ascoltandoti parlare di come sarà il lavoro e della tua concezione di danza, è quasi frustrante pensare a un corpo che non si muove, però, usare l’espediente della processione è interessante. Immagino avvenga all’esterno.
 

M.R.: L’idea è che parte della performance avvenga all’esterno, compatibilmente con la struttura di Palazzo delle Esposizioni e della sua scalinata. Ma anche tutto ciò che avviene all’interno è per me dinamico, pur nella sua staticità e gravità. Si tratta in realtà di “sospensione”.

parte di

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Gli appunti in forma di diario raccolti qui raccontano il percorso fatto con le artiste e gli artisti del progetto Prender-si cura, un ciclo di residenze artistiche e produttive realizzate a La Pelanda, nel Mattatoio di Roma.
Padiglione 9B, Performer: Prinz Gholam
13 luglio, ore 12-13
SOLO SU INVITO
13 luglio, ore 12-13
13 luglio, ore 12-13